SIAMO ANCORA NELLA PARTE NORD DEL MONDO?

SIAMO ANCORA NELLA PARTE NORD DEL MONDO?

Negli ultimi vent’anni abbiamo imparato a leggere la trasformazione dell’economia mondiale attraverso una nuova lente di analisi, quella delle Global Value Chains. Nelle GVC un ciclo produttivo viene spezzato in tante fasi elementari che vengono posizionate in paesi e regioni dove possono essere eseguite meglio e al miglior costo. Dopo una Great Divergence, un periodo in cui pochi paesi occidentali tra cui l’Italia hanno rapidamente industrializzato le proprie economie creando un sostanziale gap con i paesi del Sud del mondo, la diffusione pervasiva delle GVC ha dato avvio ad una Great Convergence, una convergenza tra il Nord e il Sud del mondo. Grazie alle GVC, paesi come la come Cina e il Sud Corea sono passati in pochi anni dall’essere produttori in conto terzi per brand occidentali a diventare leader tecnologici. L’attuale tensione commerciale tra Cina e USA è di fatto il tentativo americano di arginare quel processo di ‘technology transfer’ attraverso il quale produttori a basso costo del Sud del mondo assorbono tecnologie e capacità da clienti del Nord del mondo. Il primato cinese nella tecnologia 5G è probabilmente l’esempio più concreto di quanto sta accadendo nel mondo odierno delle GVC.

In questo quadro, l’Italia rimane saldamente ancorata a GVC a chiaro controllo tedesco, francese e americano. Numeri alla mano, sono questi infatti i principali buyer dei nostri manufatti, spesso rappresentati da input intermedi che vengono poi processati, assemblati o distribuiti da aziende straniere più grandi e strutturate rispetto alle nostre piccole e medie imprese (pensate ai legami di subfornitura che le imprese italiane hanno con i big dell’automotive tedeschi). L’essere parte di svariate GVC a controllo straniero ci consente dunque di generare esportazioni, in crescita anche nel 2019 di 3 punti percentuali su base annua e prossime a raggiungere i 500 miliardi di valore economico.. Quindi tutti felici e pronti a un 2020 glorioso? Non proprio. La nostra sensazione (sempre più supportata da evidenze empiriche) è che l’Italia rimanga il secondo paese industriale d’Europa e un grande esportatore perché si sta specializzando nel diventare la fabbrica di qualcun altro. Nulla di male a insistere su produzione e manifattura italiana, a patto però che ciò non sacrifichi il processo di apprendimento dagli altri (chiamiamolo per comodità ‘technology transfer’) e il conseguente miglioramento delle performance economiche delle nostre imprese. Insomma, dobbiamo imparare a fare come i cinesi.

In altre parole: se è vero che Foxconn ha imparato e sta imparando da Apple, possiamo dire lo stesso di quei migliaia di subfornitori italiani che producono per brand tedeschi? Perché se ciò non accade (e i dubbi ci sono), rischiamo di uscire dal club dei paesi del Nord del mondo. Un’esagerazione? No, affatto. In alcune zone d’Italia sta già accadendo. Dei laboratori cinesi a Prato ci siamo stancati di leggere. Ci sono lavoratori nel meridione Italiano che secondo un’inchiesta del NYT arrivano a guadagnare 1 euro l’ora producendo capi griffati per brand della moda globali, e non vengono sfruttati perché la globalizzazione è cattiva ma perché, semmai, le imprese che ‘li hanno assunti’ hanno deciso di seguire una strategia low road incentrata sulla contrazione dei costi senza alcun investimento in innovazione o tecnologia produttiva. Quando ciò accade, l’unica opzione percorribile è far leva sull’altro fattore economico, il lavoro appunto. E siccome oggi delocalizzare nell’Europa dell’Est non è necessariamente più conveniente che delocalizzare in Puglia, il gioco è fatto.

La buona notizia è che esistono imprese virtuose che hanno imparato da rapporti di filiera con imprese leader mondiali, aggiornando i propri modelli di business e investendo in tecnologia al fine di contrarre i costi produttivi (si pensi ad esempio a Friulintagli, oggi primo produttore italiano nel comparto legno-arredo grazie anche alla partnership con Ikea). Ci piace pensare che sono diventate contract innovator.
Certo, non è facile, il rischio è quello della regina di cuori di Alice nel paese delle meraviglie: costretta a correre continuamente per non cadere lei, costrette a investire continuamente per non essere risucchiate nel low-cost le imprese che adottano questa strada. Certo, poi: anche imboccando questa strada non tutte le grane sono risolte. Si pensi al farmaceutico italiano, la cui strabiliante crescita è trainata dall’export, principalmente generato da imprese che producono per conto di brand globali. Queste imprese farmaceutiche italiane occupano personale altamente qualificato con specializzazioni in chimica, ingegneria e IT, che tuttavia guadagna meno rispetto ai pari ruolo de Nord del mondo e offre dunque un vantaggio di costo alle nostre imprese.

Il bellissimo libro di Tommaso Ebhardt su Sergio Marchionne spiega benissimo come in un mercato B2C, Marchionne abbia puntato alla fuga dalle commodities rifugiandosi su prodotti ad alto valore aggiunto (i SUV) e brand distintivi (Jeep). Friulintagli ha preso un’altra strada, quella della competenza distintiva e del servizio. In entrambi i casi però è nella fuga dalla commodity che sembra risiedere il ruolo da protagonista in una GVC. Il rischio di essere risucchiati verso il basso in un mestiere che non sappiamo fare (quello delle economie ad ogni costo) è fortissimo. Intravedere una “cinesizzazione” dell’Italia (e la Cina non è quella di oggi) è ormai quasi facile. E noi siamo preoccupatissimi.

Rimane la sensazione che giocare la partita dei contract innovator, per quanto non semplice, dia più speranza al nostro Paese rispetto al diventare la caricatura della Cina di vent’anni fa. Quante sono le imprese contract innovator? Non lo sappiamo (ancora) con certezza, ma vogliamo credere che non siano delle mosche bianche.

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Giulio Buciuni